Domenica 14 Dicembre 2003 |
Pietro Gargano
Qualche paziente, mentre si fa controllare la vista da
quell’austero dottore in camice bianco, ogni tanto gli lancia un’occhiata di
sbieco e alla fine fa: «Scusi, ma lei non è per caso Sasà Capobianco?». Dal
passato non ti liberi ed è pure piacevole, se l’ieri è fatto di tanta musica.
Responsabile della struttura di oculistica neonatale all’ospedale Santobono,
Capobianco per un ventennio è stato il signore dell’etere e delle notti
napoletane: pioniere dei disc jockey, creatore di quel fenomeno che fu Radio
Kiss Kiss. Alle soglie del mezzo secolo di età fa soltanto il medico e non ha
nostalgia di un tempo irripetibile.
Dove nasce il dj Capobianco?
«A via
Vittoria Colonna, Chiaia borghese. Padre, Alfredo, medico; madre casalinga. A
quindici-sedici anni, facevo il liceo scientifico al Mercalli, mi venne voglia
di far sentire agli altri la musica che mi piaceva e cominciai a fare il dj allo
Zeppelin, allo Schiribizzo, allo Shaker. Si sentiva musica, non rumore. Io amavo
il rock con venature dolci, Genesis, Emerson Lake and Palmer... La scaletta era
fissa: tre balli veloci, tre shake, quattro lenti. I brani giravano fino alla
fine, potevi soltanto cambiare velocemente».
Era l’epoca delle prime radio
libere.
«Un po’ prima. Il collegamento sta nel fatto che i dj si ritrovarono
nelle radio, Enzo Lucci della Mela oggi padrone di casa dell’Otto Jazz Club,
Gianni De Simone del Papillon, Angelo Tardio. Io stesso lavorai con Nando
Coppeto, poi produttore di Roberto Murolo, a Radio Napoli City».
Siamo a
metà degli anni Settanta e nacque Kiss Kiss.
«1976, l’omonima discoteca già
c’era. Il proprietario, Ciro Niespolo, mi chiamò e m’interrogò sul futuro delle
radio. Perché non la facciamo? Dissi io. La facemmo, i quattrini da spendere non
mancavano e noi, ritenuti volontari, per qualche anno non prendemmo una lira: i
soldi furono destinati al prodotto. Il primo stipendio, in realtà un rimborso
spese, lo presi dopo sei-sette anni. Fui direttore dei programmi, organizzai i
palinsesti, curai la parte tecnica e i rapporti con gli artisti».
Un amabile
dittatore che ebbe la bell’idea di «Disco live».
«Sì, un’invenzione.
L’emittente si collegava alla discoteca il sabato e la domenica e trasmetteva in
diretta. La gente amante di quel mondo passava le ore incollata alla radio,
registrava le puntate, faceva le sue classifiche dei dischi. Le nostre, di
classifiche, una settimana dopo erano riprese da tutte le altre radio».
Erano tempi benedetti, non dominati dall’audience: qualche cifra del
successo?
«Sulle nostre frequenze, 97,00 e 91,800, si collegavano in
sette-ottocentomila. Anche perché non esistevano network o alternative
nazionali. Radio Montecarlo si prendeva solo sulle onde medie e la qualità di
ascolto era pessima».
Com’era il rapporto con gli artisti napoletani?
«Ottimo, capirono prima degli altri l’importanza del mezzo: ad ascoltare la
radio erano i giovani, quelli che compravano i dischi. Ma nei nostri studi
passarono un po’ tutti i cantanti italiani. Non era un rapporto merceologico:
loro proponevano, noi sceglievamo. Un giorno, subito dopo il terremoto,
bussarono alla porta. Andai e attraverso il vetro vidi un fetente con la barba
lunga. Quasi quasi non lo facevo entrare. Agitò un disco, disse muovendo la
bocca ”sto facendo un giro d’Italia per farlo conoscere”. Gli aprii. Era Vasco
Rossi. Lo sentii e facemmo subito un’intervista».
C’è qualcuno che deve la
fortuna a quella radio?
«Mi viene da pensare a Pino Daniele. Non aveva
ancora inciso il primo album, ci arrivò il 45 giri con ”Na tazzulella ‘e café” e
”Fortunato”. Lo mandai a ripetizione, funzionò, fece tendenza forse proprio
perché l’avevamo trasmesso noi. Allora era molto più difficile di oggi che i
giovani accettassero un prodotto in napoletano. Pino non fu il solo, nei nostri
studi erano di casa, ad esempio, Nino Buonocore e Peppino Di Capri, generazioni
diverse».
Chi c’era accanto a lei?
«Gino Rivieccio cominciò a Kiss Kiss.
E Roberto Serra, Gennaro Morrone, tanti altri».
L’attività musicale
intralciò gli studi?
«Per niente. Mi laureai regolarmente in medicina con
110 e lode e presi la specializzazione in oculistica col massimo dei voti,
rassicurando papà, all’inizio contrarissimo al mio hobby. Ero molto coinvolto,
ma riuscivo a fare il resto».
Allora perché lasciò?
«Perché i tempi
stavano cambiando e non riuscivamo a fermarli. Nelle nostre discoteche si
sentiva musica vera e diversa, io proponevo il rock, i cantautori italiani, il
soul e il funk. Vi si andava per stare insieme, come si andava al pub o in
pizzeria. Vi si andava per parlare anche, i decibel non ti stordivano. E per
ballare come si deve, si vedevano i capelli lunghi ondeggiare. A mano mano
arrivò un ritmo continuo, pazzesco, dall’inizio alla fine della serata. Cambiò
il pubblico, andava lì solo per stordirsi con il frastuono, aiutata da altri
fatti...».
Vuol dire che ai suoi tempi non girava droga?
«Magari qualche
spinello sì, ma solo quello. I gestori allestivano servizi d’ordine severi,
controllavano i bagni. Oggi molti assecondano lo sballo».
Fu solo questo
imbastardimento ad allontanarla da Kiss Kiss?
«Ci fu pure qualche
incomprensione con Niespolo. Dire Kiss Kiss significava dire Sasà Capobianco, ma
Niespolo aveva cinque figli e finché furono in età scolare, tutto andò liscio.
Poi cercarono spazi e la mia presenza diventò incompatibile».
Ma non lasciò
subito quell’ambiente.
«Attorno al 1987 fondai una società di servizi, si
chiamava Doctor’s Group. Con me Benny Bove, Serra, Marco Leone... tutte persone
divertenti e capaci di organizzare. Fornimmo programmi e sigle a radio e
discoteche, gestimmo il personale. Andò bene per diversi anni. Nella sede al
corso Vittorio Emanuele creammo un punto vendita di dischi per quel tipo di
pubblico. Organizzammo corsi per dj, l’avevo già fatto a Kiss Kiss; Fernando
Opera uscì da lì. Nel frattempo non avevo abbandonato le radio, lavorai a Radio
Marte e con Dino Luglio a Radio Med».
E la decisione di troncare netto?
«Una decina di anni fa. La giornata in ospedale o allo studio, la serata con
la musica: e dov’era il tempo per stare a casa? Mia moglie Paola, sposata dopo
tredici anni di fidanzamento, si era stancata di seguirmi. Volevo vedere
crescere i figli. E poi c’era il luogo comune: un dj non può essere un bravo
medico, ha un’immagine troppo leggera».
In tutto questo tempo non è tornato
più a fare scratch?
«Una sola volta alla Mela, per la festa di un collega
oculista. Tutta gente della mia età, ho fatto quello che piace a me».
C’è
qualcosa da fare per tornare a una discoteca civile?
«Se lo sapessi, l’avrei
fatto allora. La discoteca è stata distrutta da una forma di camorra chiamata
portagente. Prima si andava nel locale più simpatico, dalla musica migliore.
Oggi l’afflusso dipende dal capocomotiva, lui vale più di un dj. E poi il
mercato è stato distrutto dai discobar, dai discopub: con la stessa cifra si
balla e si mangia. Il livello di qualità si è abbassato troppo».
Rimpianti?
«Veri e propri no, ho trovato un altro tipo di tranquillità e un altro modo
di ascoltare musica, più privato. Certo, essere riconosciuti per la strada
faceva piacere. Ho avuto qualche offerta di tornare alla radio, ho rifiutato».
La radio l’ascolta ancora?
«E ci mancherebbe. Radio Capital è quella che
avrei fatto, mescola successi di ieri e di oggi, li sceglie con cura, manda
pezzi che credevo di conoscere solo io. La sera Radio Montecarlo, molto aperta
alla fusion. E poi i miei lp, oltre diecimila, prendono un appartamento. Mia
moglie è architetto, ha disegnato un mobiletto per i piatti ”Technics 1200 MK
2”, li usavamo in discoteca».
I suoi figli adolescenti che musica ascoltano?
«Niente a che vedere con la nostra. Ho il dubbio che Eminem non valga i
Beatles».